Tesi etd-09122018-184126
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Tipo di tesi
Corsi integrativi di I livello
Autore
NERONI, BEATRICE
URN
etd-09122018-184126
Titolo
Profili di rilevanza penale del trattamento terapeutico: il rifiuto di cure e le scelte concernenti il fine vita dopo la legge sul c.d. biotestamento
Struttura
Cl. Sc. Sociali - Giurisprudenza
Corso di studi
SCIENZE GIURIDICHE - Laurea Magistrale in Giurisprudenza (LMG-01)
Commissione
relatore Prof. ROSSI, EMANUELE
Relatore Prof.ssa MORGANTE, GAETANA
Membro Prof. COMANDE', GIOVANNI
Membro Prof.ssa PALMERINI, ERICA
Membro Dott. FREDIANI, EMILIANO
Relatore Prof.ssa MORGANTE, GAETANA
Membro Prof. COMANDE', GIOVANNI
Membro Prof.ssa PALMERINI, ERICA
Membro Dott. FREDIANI, EMILIANO
Parole chiave
- Consenso
- trattamento terapeutico
- l. 219/2017
- rifiuto di cure
- eutanasia passiva
- aiuto al suicidio
- 580 c.p.
- questione di costituzionalità
Data inizio appello
02/10/2018;
Disponibilità
completa
Riassunto analitico
L'elaborato si propone di affrontare il tema della rilevanza penale del trattamento terapeutico sotto i diversi profili, sia fisiologici che patologici.
Dopo un primo inquadramento generale sui presupposti di liceità dell'intervento medico, viene affrontata la questione problematica, ancora priva di risposte univoche tra gli interpreti, delle conseguenze penali per il medico del trattamento effettuato senza consenso. Il consenso, infatti, costituisce fondamento e legittimazione del trattamento terapeutico e, senza di esso l’intervento del medico è ritenuto illecito, in quanto arbitrario, anche quando sia stato posto in essere nell’interesse del paziente, secondo una configurazione del rapporto medico-paziente fondato sulla c.d. alleanza terapeutica.
Seppur riconosciuto a livello costituzionale e sovranazionale, il consenso ha trovato esplicita codificazione solo con la più recente l. 219/2017 recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.
La legge, intervenuta dopo una lunga gestazione, riconosce a livello normativo alcuni principi già elaborati dalla giurisprudenza nei noti casi di rilevanza mediatica Welby ed Englaro, e ha il merito chiarire l'ambito di autonomia decisionale del paziente rispetto a trattamenti sanitari. Il diritto di autodeterminarsi in ambito sanitario riconosciuto al paziente comporta il diritto di essere informato, il diritto di scegliere se e a quali trattamenti sottoporsi e il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, anche attraverso il ricorso alle Disposizioni Anticipate di Trattamento o per mezzo di un rappresentante in caso di incapacità.
L'aspetto più innovativo - nonché con maggiori risvolti penalistici- della legge è da rinvenire proprio nell’avvenuto riconoscimento di tale ultimo diritto. In tale ipotesi, il medico è tenuto ad attivare una fase procedimentale volta a verificare la consapevolezza della scelta, all’esito della quale deve rispettare la volontà espressa dal paziente di non iniziare o di interrompere un trattamento sanitario e “in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civili o penali”.
La scelta di rifiutare le cure si colloca nell’ambito delle scelte legate al trattamento terapeutico. La giurisprudenza prima e il legislatore con la recente legge hanno riconosciuto il diritto di decidere se curarsi o meno, che può comportare anche il diritto di lasciarsi morire. Non è possibile, però, ritenere che la novella abbia dato un riconoscimento ancorché settoriale ad un diritto all’autodeterminazione nel fine vita, anche quando le sofferenze siano tali da renderla, nell’ottica del paziente, non più degna di essere vissuta. Al di fuori dell’ambito terapeutico, il diritto di porre fine alla propria esistenza non trova cittadinanza nel nostro ordinamento.
La questione è di stringente attualità in considerazione della vicenda legata al recente caso Dj Fabo – Cappato, che evidenzia con drammaticità la ricorrenza di ipotesi in cui per porre fine alla propria esistenza, non è sufficiente il rifiuto delle cure - in quanto le stesse non sono irrogate per il sostegno vitale, ma per alleviare le sofferenze legate allo stato patologico. Per poter morire il soggetto necessita, quindi, di una condotta attiva di un terzo che lo aiuti nel proposito suicida, ricadendosi, pertanto, nelle ipotesi di c.d. eutanasia attiva, vietata nel nostro ordinamento, stante la persistente vigenza nel codice penale degli articoli 579 (omicidio del consenziente) e 580 (istigazione o aiuto al suicidio).
Proprio con riferimento a quest’ultima fattispecie è stata sollevata una questione di legittimità costituzionale, che evidenzia il perdurante vuoto normativo e la necessità di superare i problemi interpretativi posti da norme di cui difficilmente si riesce oggi a individuare una ratio coerente con i principi e con l’evoluzione del quadro valoriale di riferimento.
Dopo un primo inquadramento generale sui presupposti di liceità dell'intervento medico, viene affrontata la questione problematica, ancora priva di risposte univoche tra gli interpreti, delle conseguenze penali per il medico del trattamento effettuato senza consenso. Il consenso, infatti, costituisce fondamento e legittimazione del trattamento terapeutico e, senza di esso l’intervento del medico è ritenuto illecito, in quanto arbitrario, anche quando sia stato posto in essere nell’interesse del paziente, secondo una configurazione del rapporto medico-paziente fondato sulla c.d. alleanza terapeutica.
Seppur riconosciuto a livello costituzionale e sovranazionale, il consenso ha trovato esplicita codificazione solo con la più recente l. 219/2017 recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.
La legge, intervenuta dopo una lunga gestazione, riconosce a livello normativo alcuni principi già elaborati dalla giurisprudenza nei noti casi di rilevanza mediatica Welby ed Englaro, e ha il merito chiarire l'ambito di autonomia decisionale del paziente rispetto a trattamenti sanitari. Il diritto di autodeterminarsi in ambito sanitario riconosciuto al paziente comporta il diritto di essere informato, il diritto di scegliere se e a quali trattamenti sottoporsi e il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, anche attraverso il ricorso alle Disposizioni Anticipate di Trattamento o per mezzo di un rappresentante in caso di incapacità.
L'aspetto più innovativo - nonché con maggiori risvolti penalistici- della legge è da rinvenire proprio nell’avvenuto riconoscimento di tale ultimo diritto. In tale ipotesi, il medico è tenuto ad attivare una fase procedimentale volta a verificare la consapevolezza della scelta, all’esito della quale deve rispettare la volontà espressa dal paziente di non iniziare o di interrompere un trattamento sanitario e “in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civili o penali”.
La scelta di rifiutare le cure si colloca nell’ambito delle scelte legate al trattamento terapeutico. La giurisprudenza prima e il legislatore con la recente legge hanno riconosciuto il diritto di decidere se curarsi o meno, che può comportare anche il diritto di lasciarsi morire. Non è possibile, però, ritenere che la novella abbia dato un riconoscimento ancorché settoriale ad un diritto all’autodeterminazione nel fine vita, anche quando le sofferenze siano tali da renderla, nell’ottica del paziente, non più degna di essere vissuta. Al di fuori dell’ambito terapeutico, il diritto di porre fine alla propria esistenza non trova cittadinanza nel nostro ordinamento.
La questione è di stringente attualità in considerazione della vicenda legata al recente caso Dj Fabo – Cappato, che evidenzia con drammaticità la ricorrenza di ipotesi in cui per porre fine alla propria esistenza, non è sufficiente il rifiuto delle cure - in quanto le stesse non sono irrogate per il sostegno vitale, ma per alleviare le sofferenze legate allo stato patologico. Per poter morire il soggetto necessita, quindi, di una condotta attiva di un terzo che lo aiuti nel proposito suicida, ricadendosi, pertanto, nelle ipotesi di c.d. eutanasia attiva, vietata nel nostro ordinamento, stante la persistente vigenza nel codice penale degli articoli 579 (omicidio del consenziente) e 580 (istigazione o aiuto al suicidio).
Proprio con riferimento a quest’ultima fattispecie è stata sollevata una questione di legittimità costituzionale, che evidenzia il perdurante vuoto normativo e la necessità di superare i problemi interpretativi posti da norme di cui difficilmente si riesce oggi a individuare una ratio coerente con i principi e con l’evoluzione del quadro valoriale di riferimento.
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